Speciale Eolico SELVAGGIO

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Carichiamo continuamente testo e materiali sull’eolico selvaggio (ma anche fotovoltaico a terra e in genere rinnovabili speculative), centro di attenzione per i gravi guasti che ha provocato e che ancora sta determinando al territorio a causa di una speculazione gravissima e inarginata, anzi perfino agevolata. Le rinnovabili sono diventate da tempo il più becero assalto territoriale che il Mezzogiorno abbia mai subito, rispettando gli allarmi che avevamo lanciato in tempi non sospetti: incentivi stratosferici e regole farsa, ad uso e consumo dell’affarismo energetico.

Di seguito si può visionare un video significativo (disponibile in rete su Youtube) che testimonia uno degli “effetti” diretti delle eolico sulla fauna selvatica e sugli uccelli rapaci in particolare mentre più in basso è possibile leggere una descrizione articolata sulla speculazione eolica (e fotovoltaica) in Italia.

E’ possibile, inoltre, andare nell’area documenti dove è presente materiale informativo sulla questione o anche sul nostro canale Youtube oppure su alcuni dei link ad altri siti indicati nella nostra Home page . Buona visione e lettura.

VENTI di GUERRA sulle RINNOVABILI  ( articolo pubblicato il 19.12.2011 su www.ilrespiro.eu a cura di Enzo Cripezzi, coordinatore LIPU per la Puglia e la Basilicata, membro della Commissione LIPU sull’Energia)

Rinnovabili senza se e senza ma: o sarebbe meglio, anche, sostenibili? Per dieci anni disinformazione e ignavia hanno trasformato le rinnovabili nel grimaldello per una speculazione finanziaria e in uno dei più estesi saccheggi del Bel Paese. Com’è stato possibile?
 Ho cercato qui di ripercorrere gli aspetti salienti di una dinamica storica di grande portata ma per anni emarginata dalle attenzioni pubbliche. E’ un piccolo risarcimento rispetto all’approccio acritico e a senso unico che ha caratterizzato per anni le rinnovabili.
 Qualcuno rimarrà sconcertato, altri sorpresi. Qualcuno si riconoscerà nei contesti, altri dissentiranno. E’ il bello della pluralità di idee in un paese democratico che, tuttavia, avrebbe dovuto caratterizzare un dibattito preventivo mai nato. E purtroppo non è un caso.
 
 INTRODUZIONE

 Percorrendo le strade del Mezzogiorno ci si imbatte in nuove piantagioni. I “quadri viventi” che ritraevano secoli di storia e paesaggi italici scampati alla lebbra del cemento sono stati improvvisamente oggetto della più grande e rapida trasformazione che l’uomo abbia mai perpetrato al proprio ambiente.
 Una, due, dieci, quaranta e poi ancora altre e altre e ancora altre più lontano. Una sequela senza fine e senza ritegno di colossali torri d’acciaio, avulse dalla pietra e dalla terra che li ospitano, si ergono per 100-150 metri di altezza con enormi rotori. Ma anche se si tiene lo sguardo basso “coltivazioni” grigie  di pannelli seppelliscono ora come un morbillo, ora come una interminabile distesa, i terreni confiscati in nome dello “sviluppo”, classificato a priori come cosa buona e giusta.
 Sono il frutto della nostra richiesta di energia pulita. Ma in nome dell’energia pulita si possono derubricare valutazioni costi-benefici, valori territoriali, pianificazione e perfino la giustizia? “L’energia rinnovabile è come la pace: tutti siamo d’accordo ….” Se ne è accorto Antonello Caporale, giornalista e scrittore nel suo bellissimo Controvento, il tesoro che il Sud non sa di avere.
 Non è un libro contro l’eolico eppure ne identifica bene il contesto (come per il fotovoltaico) con una sapiente fotografia narrativa, attraverso riflessioni e storie emblematiche.
 Pale e pannelli. A centinaia, per sempre, in quelli che sono stati i granai d’Italia, tra gli ulivi secolari, sulle colline raccontate dalle location cinematografiche, a sovrastare le torri medioevali, nelle aree a maggior valenza per la biodiversità, sulle zone archeologiche, a ridosso delle masserie e perfino delle abitazioni rurali abitate.
 Per chi non si accorda c’è la minaccia degli espropri. Se proprio non accetta offerte “a cui non si può rifiutare”. Le chiamano royalties. Si danno ai privati e ai comuni.
 Dieci anni: uno scenario a tratti dittatoriale in cui, a torto o a ragione, sono stati scardinati decenni di maturazione delle norme di tutela e delle concezioni più nobili dell’urbanistica e dell’uso razionale del territorio, il valore del paesaggio e il rispetto della Natura per fare spazio a questa trasformazione.
 Perchè le rinnovabili sono eco che più eco non si può. A prescindere. Nel 1996-98 si apriva la vertenza eolica tra i Monti Dauni (Fg) e il Beneventano: insediamenti improvvisati, senza alcuna procedura, decine di pale in aree pregiate per la biodiversità e il paesaggio. Era il presagio: un potenziale disastro sarebbe stato generato su vasta scala se il processo non fosse stato rigorosamente governato. Questo pensavano alcuni ambientalisti non appartenenti alla crescente religione dell’”ambientalismo del fare”, ma a quella del fare “bene”. Seguivano le prime istanze di tutela e l’allarme lanciato da una parte dell’associazionismo più sensibile alla tutela del Paesaggio e della Biodiversità e da Comitati territoriali, indignati da metodi di colonizzazione territoriale cosi poco ortodossi. Richieste purtroppo inascoltate.
 Sull’altro fronte, invece, qualcuno iniziava a immaginare come la cultura dell’energia pulita e le emergenze del pianeta potevano incanalare gli affari del futuro. Ma non per tutti!
 Confezionare gli incentivi più alti del mondo per l’eolico, in nome della lotta ai cambiamenti climatici del pianeta, fu il primo passo. La sommaria deregolamentazione il secondo.
 Gli incentivi, insieme ad una totale deregulation normativa, determinarono l’“assalto alla diligenza”. Con interessi economici esasperati le società eoliche avviavano accordi per realizzare impiantare quei manufatti che sarebbero stati i più grandi creati dall’uomo, a fronte di royalties versate ai comuni e ai privati disponibili ad ospitare i piloni eolici sui propri terreni.
 In pochi anni la proliferazione di centrali eoliche industriali avrebbe assunto i connotati di “selvaggia” determinando il sacco ambientale di vaste aree del Mezzogiorno d’Italia e in particolare proprio di quelle aree culturalmente più deboli e vulnerabili, a partire dal “cratere” Appulo-Campano, oggi ridotto a ricettacolo di tali impianti con l’assoggettamento di decine di migliaia di ettari. Una delle più grandi trasformazioni territoriali del nostro Paese, oggettivamente promossa da una enorme speculazione economica finanziaria, non ha conosciuto alcun momento di confronto preliminare, di valutazione o, quanto meno, di scelta consapevole nel suo complesso. Un pesante velo di omertà mediatica, inoltre, ha contribuito a oscurare l’attenzione delle coscienze.
 Vaste aree hanno mutato il volto tipico di aree rurali e agro-pastorali per assumere quello industriale con centinaia di torri eoliche, piste, sbancamenti e nuove strade, elettrodotti, cantieri, trasporti pesanti, cabine e stazioni elettriche, con colate di cemento per l’ancoraggio al suolo e plinti di cemento a 20 m di profondità.
 Oggi sono oltre 5000 torri eoliche industriali ma il consuntivo, abilmente occultato, sta per diventare pesantissimo. E le più recenti distese di pannelli di silicio non stanno a guardare. E poi tutto “eco”, ci guadagna l’ambiente. E sicuramente anche il PIL tedesco e cinese. 

 ITER AUTORIZZATIVO E VALUTAZIONE AMBIENTALE

 L’iter autorizzativo, almeno per gli impianti oltre una certa taglia, prevede sostanzialmente un percorso di conferenze di servizi, in cui sono espressi i pareri di competenza richiesti a seconda dell’area interessata e al netto dei tempi richiesti dal parere ambientale, che rappresenta il più importante atto endoprocedimentale.
 L’autorità competente ad esprimere il parere ambientale è in genere la Regione ma, in seguito alla ingestibilità della mole di progetti presentati, si riscontra una insistente tendenza a delegare le province, integrando cosi un ulteriore elemento di parcellizzazione dei procedimenti e di degrado della qualità delle valutazioni. E poi si sa, in nome del decentramento ognuno può fare ciò che gli pare a casa sua, compreso le porcherie.
 Il parere ambientale rappresenta la “dote” sostanziale con cui i progetti approdano alle conferenze di servizio previste dalla procedura per il raggiungimento della cosiddetta Autorizzazione Unica ai sensi del D.Lgs 387/03, il provvedimento che ha determinato la deriva nella regolamentazione del settore, assegnando anche il carattere di opere di pubblica utilità, indifferibili ed urgenti alle opere cosi autorizzate.
 Agli affaristi non dev’essere parso vero!  La speculazione edilizia raccontata dalla celebre sequenza di Franco Rosi ne Le mani sulla città (1963) presuppone la cosiddetta destinazione urbanistica. Nel caso di queste centrali è già tutto compatibile con la destinazione urbanistica agricola. L’autorizzazione modifica implicitamente il suolo interessato da agricolo a industriale. E sono tutti contenti! Cosa si vuole di più?
 In materia di valutazione ambientale gli impianti eolici industriali, cosi come il fotovoltaico, rientrano tra le opere per le quali viene effettuato il cosiddetto screening ambientale rispetto al quale, il progetto può essere approvato con le valutazioni di istruttori e dirigenti (salvo qualche prescrizione) o può invece essere assoggettato alla procedura di VIA vera e propria, che è stato un evento del tutto straordinario rispetto alla mole di progetti trattati.
 E’ opportuno ricordare anche la pressoché totale assenza di evidenza pubblica che ne è derivata per tutti progetti presentati fino al 2009 (e quindi ancora in corso di valutazione). La procedura di VIA garantiva l’obbligo della pubblicazione (ad esempio su un quotidiano, per quanto limitativo già possa sembrare) dell’avviso di deposito del progetto, con la possibilità, da parte di chiunque, di presentare delle “osservazioni”. La procedura di screening, invece, permetteva questa propaganda al solo albo pretorio comunale per i canonici 30 giorni garantendo una trattativa “riservata”, se non occulta, tra sindaci e società senza che fosse promossa l’informazione al pubblico su un territorio coerente con le “dimensioni” dei progetti. Esempi sconsolanti sono un po’ tutte le regioni meridionali ma emblematico è il “buco nero” della Campania, che per anni non ha lasciato tracce nemmeno dei pareri ambientali emessi oltre che dei progetti presentati. Senza preavviso, enormi TIR per il trasporto speciale con a bordo grandi piloni eolici si presentavano sui terreni agricoli, sui pascoli, fra i muretti a secco, fino a impegnare piste improvvisate tra lo stupore prima, l’insofferenza e la contestazione poi, di agricoltori e abitanti del luogo che solo in quel momento prendevano atto di ciò che stava succedendo.. 
 Ma la “verifica ambientale” è tutt’altro che garantista, in innumerevoli casi si registra una scandalosa costante: a fronte di relazioni ambientali autoreferenziali, con stima degli impatti paesaggistici e faunistici banalizzati e privi di conforto scientifico, fanno gravemente seguito atteggiamenti valutativi di dirigenti e responsabili regionali che vanno dalla sommaria accondiscendenza allo scarso approfondimento fino al palese, mancato rispetto delle poche prescrizioni normative anche là dove assumono un carattere imperativo.
 Per anni, e in gran parte avviene oggi, si è fatto riferimento unicamente agli elaborati progettuali del proponente piuttosto che a uno staff di persone preparate e indipendenti al servizio degli uffici: “l’asino vola”, dice la società. “ok, l’asino vola”, risponde l’Autorità competente. E così centinaia e centinaia di pronunce di compatibilità ambientale sono state emesse, escludendo il progetto dalle procedure di VIA, dalla Campania alla Sicilia, dalla Calabria al Molise, con inevitabili, gravi conseguenze sulla valutazione degli impatti attesi ma soprattutto sull’effetto cumulativo di più progetti. Tuttavia i dati evidenziano che anche i progetti assoggettati a VIA sono stati valutati impropriamente anche per effetto di Commissioni VIA prive di esperti competenti nelle specificità  di tali progetti (es. ornitologia), e con rischi di conflitto di interessi tra proponenti e valutatori.
 Ma lo abbiamo detto, c’è sempre una voce che martella: fare presto, comunque e dovunque, tutto il resto può essere messo da parte e poco importa se si tratti dei valori più nobili della Nazione. Sennò cosa abbiamo messo a fare gli incentivi più alti del mondo?
 E per il fotovoltaico è stato anche peggio. In Puglia avevano pensato bene di escludere totalmente dal parere ambientale tutti gli impianti fino a 15 MW. Vale a dire estensioni ampie 30 ettari ! Salvo reintrodurre lo scorso anno una soglia più bassa dopo i disastri ormai visibili. E poi c’è sempre la possibilità di ricorrere al TAR. Per un progetto che vale milioni di euro e viene contestato vale sempre la pena un ricorso. I contenziosi sono tanti, una gran quantità innescati tra le stesse società energetiche, per la rivendicazione di diritti autorizzativi sulla medesima area! Il termometro di uno stato confusionale che regna da anni nel settore.
 Si diceva che l’eolico portasse occupazione, lavoro. Certo questo è stato un settore in cui ne ha portato parecchio. Ai Tribunali. Ricorsi su ricorsi, a centinaia, hanno invaso i tribunali amministrativi, che a loro volta hanno abbattuto il primato di una politica troppo assente per subentrarvi, anche con discutibili sentenze in nome di Kyoto e con buona pace dei valori inalienabili, fino a ieri, della nostra carta costituzionale.
 Un quadro desolante, quindi, caratterizzato da innumerevoli esempi di malagestione territoriale e di offesa dello spirito delle procedure di VIA.  In forza dell’errato insediamento delle grandi centrali eoliche industriali, aggravato poi dal fotovoltaico, si sono già verificati: l’aborto di parchi in fase di istituzione per sostituirli con i “parchi” eolici (termine abusato e offensivo nei confronti delle vere aree protette), il degrado di molti siti Natura2000, la scomparsa di intere comunità faunistiche di rilievo europeo, lo scempio di paesaggi integri e plurivincolati, il degrado di valori storici, archeologici e culturali prima inalienabili, il decadimento di valori economici legati al turismo ed alla valorizzazione della ruralità. Tutto ciò ha assunto ulteriori, drammatici caratteri con il precipitare delle situazioni regionali dove gli uffici non sono in grado di arginare un fenomeno incontrollato, con migliaia di proposte progettuali disseminate sul territorio.

 2010: LE “LINEE GUIDA” E LE IPOTECHE

 Ma nel settembre 2010 arriva la svolta.  Anzi no.
 Con un decreto lo Stato emana le cosiddette Linee Guida per le Autorizzazioni degli impianti da fonte rinnovabile, preannunciate nel lontano 2003 dal famigerato Decreto 387 che aveva deregolamentato il settore. Con 7 anni di ritardo, in cui le varie compagini politiche si sono guardate bene dal realizzare tale provvedimento per la gioia della lobby energetica, arriva la fumata bianca.
 Ma a fronte di una situazione già disastrosa, il decreto individua punti chiave garantisti per le procedure amministrative, con non pochi vantaggi per le società, ma demanda alle regioni, non un “obbligo” ma la “possibilità” (e nemmeno tanta) di individuare una vincolistica territoriale di salvaguardia.
 Le Regioni, cui spetta la competenza urbanistica ma ormai abbondantemente contaminate dalla lobby, arricchitasi e irrobustita in quasi dieci anni, si sono quindi guardate bene dall’intervenire drasticamente. E poi lo abbiamo detto: se provi a fare qualcosa del genere il giorno dopo sei su tutti i giornali (e che giornali) e gli “ambientalisti”, non tutti, ti massacrano. Ma qualche timido vincolo c’è stato, con ritardo, altri sono stati aggiunti nell’ultimo anno.
 Un miracolo!? Una presa di coscienza? No, un’inutile farsa. Infatti la lobby del KWh “pulito” non è stata a guardare: nel frattempo aveva già presentato tanti e tali progetti su cosi vasta scala da opzionare ogni angolo di territorio, ogni zolla di terreno per rivendicare procedimenti intrapresi e non assoggettabili, o quasi, a nuove regole.
 Lo chiamano tempus regit actum, il tempo regge l’atto. Il principio giurisprudenziale con cui si vuol rivendicare la non assoggettabilità di un procedimento a nuove regole.
 Attenzionando centinaia di progetti emerge come la qualità di questi sul piano paesaggistico, ambientale e della biodiversità è, nella grande maggioranza dei casi, a dir poco superficiale. Del resto, non essendovi norme selettive, anche i progetti risentono di questa carenza. Le società “illuminate” si sarebbero trovate in difficoltà, e spesso fuori mercato ove, avessero “perso” tempo prezioso nel ricercare criteri di qualità, etica, concertazione e trasparenza.
 Paradossalmente, la scarsità di regole premia le società peggiori e danneggia eventuali società qualificate che, gioco forza, devono abbassare i loro standard qualitativi. In sostanza un danno per l’immagine delle stesse fonti rinnovabili.
 Per fare uno dei tantissimi esempi, oggetto peraltro di un’indagine della magistratura, a Campomaggiore in Basilicata, la multinazionale STE-Energy di Padova ha realizzato un impianto esattamente su un sito di svernamento di 100 Nibbi reali, con pesanti conseguenze anche dal punto di vista paesaggistico poiché a ridosso delle Piccole dolomiti lucane ma anche con sbancamenti e piste sopra tratturi storici. Fatto ulteriormente grave è che nulla di ciò compare nelle relazioni ambientali della Società.
 Stesso copione in Campania, a Monteverde, in uno scenario di incomparabile bellezza a breve distanza dalle location lucane di “Io non ho paura” opera cinematografica di interesse nazionale di Gabriele Salvatores e perfino “sopra” una delle dieci coppie di Cicogna nera in Italia, con contorno di Nibbi reali e Nibbi bruni. Un gigantesco quanto scandaloso impianto da 19 torri (a mortificare una Irpinia già martoriata) autorizzato alla GENCO, classica srl da 10.000 euro, scatola finanziaria e avamposto di conquista inglobato dalla Essebiesse Power. E cosi via all’infinito. Progetti, giochi e scatole fino alla compravendita di autorizzazioni o di procedimenti in corso che si perdono non disdegnando sedi a Brusselles e in giro per il mondo. Ovviamente, anche in questi casi, le proteste delle associazioni hanno stentato a trovare rilievo nazionale.
 E siamo a 170.000! Sono i MW di targa di tutte le istanze progettuali (solo oltre una certa soglia di potenza) pervenute al gestore nazionale della rete elettrica, quasi tutte eolico e fotovoltaico. Per avere un’idea della mole oceanica di cui stiamo parlando bisogna pensare che l’intera potenza messa “in moto” in Italia quando vi è il massimo assorbimento è di 56.000 MW.
 Ironia della sorte, oggi si continuano ad autorizzare progetti di centrali eoliche e fotovoltaiche perfino in quelle poche aree successivamente dichiarate interdette perché ormai avevano maturato procedimenti e diritti prima di tali provvedimenti di tutela. Da qualche anno, entrare in un ufficio preposto a rilasciare pareri ambientali per progetti eolici o fotovoltaici (ma è la volta anche della valanga dei progetti a biomasse) rende bene l’idea di un incubo. Faldoni su faldoni ovunque, sulle sedie, a terra, sulle scrivanie. Stanze stracolme, corridoi e armadi pieni. Migliaia di progetti. Tutti pronti per essere trattati dagli uffici. Che non ce la faranno mai.
 Un altro esempio: qualcuno ha salutato positivamente, alla luce delle citate Linee Guida nazionali, l’obbligo di coinvolgimento della Soprintendenza anche per le aree esterne a quelle vincolate, in seno alle conferenze di servizio per l’Autorizzazione degli impianti. In realtà tale opportunità è in gran parte compromessa dalla mastodontica quantità di istanze in alcun modo scremate alla fonte da vincoli territoriali certi. Tali uffici, come appunto quelli preposti alle valutazioni ambientali, sono letteralmente al collasso e in diverse regioni vi sono 3-4 convocazioni di conferenze di servizio al giorno intraprese per nuovi procedimenti. E allora pareri sommari o, nel migliore dei casi, un “utile” ricorso al TAR per tempi non rispettati. Oppure si può sempre ricorrere a qualche salvifica scrematura : una bella norma di deregolamentazione e via libera, ad esempio, a tutti i progetti di una certa taglia.
 Del resto l’edilizia lo aveva insegnato: vuoi agevolare il settore? Indebolisci gli uffici preposti al controllo. Caos nel caos. Ma guai a parlarne.
 A dire il vero però qualcuno riusciva a bucare la cappa disinformativa. Ci provava Exit su La7, Report su Rai3, e poi Maurizio Altomare con le “Mani sul vento” su RaiNews 24 e altri nobili esempi di vero giornalismo. Qua e là comparivano isolati articoli critici su alcune testate nazionali … “Altre” associazioni, comitati e alcuni parlamentari, ponevano la questione alle istituzioni politiche rivolgendo appelli e istanze, articolando dossier e invocando audizioni.
 E ovviamente la somma “investimenti facili” + “regole scarse” non poteva che dare come risultato non solo un inquinamento morale e la depressione dei precari equilibri democratici delle piccole comunità ma anche una attrattiva irresistibile per la criminalità. Salvo poi correre ai ripari con il soccorso “ambientalista” e le campagne mediatiche  riparatorie della lobby. Come quelle dell’ANEV (Associazione Nazionale Energia dal Vento), associazione di categoria che raccoglie le società eoliche e ne rappresenta gli interessi, ma anche, incredibile ma vero, associazione Ambientalista riconosciuta dallo Stato, al pari di tante altre associazioni che reggono la propria ossatura sul volontariato e minando cosi gli equilibri sull’argomento. 

 GLI INCENTIVI DELL’EOLICO

 In passato l’eolico ha beneficiato di un regime di incentivazione basato su contributi in conto capitale – es. POR -, adottati in alcune regioni, e su agevolazioni o contributi in conto capitale – legge 488 – a livello nazionale, con riconoscimenti al beneficio economico prima ancora che il progetto avesse un qualche parere istruttorio, con immaginabili esasperazioni della pressione della società del settore!
 Con la sola legge 488 e per le sole graduatorie 2003 e 2004 le “agevolazioni” riconosciute concedibili sono state pari a circa 211 milioni di euro. Oltre 420 milioni in quella del 2007.
 L’incentivazione maggiore deriva tuttavia dai cosiddetti Certificati Verdi che unitamente al prezzo di vendita dell’energia portano a circa 180-200 euro il valore odierno di un MWh prodotto. Certificati negoziati sul mercato dell’energia, nell’ambito del quale quindi il costo può lievitare, ma in ogni caso garantito dallo Stato che, a fine anno, assicurerà il ritiro dei certificati invenduti a prezzo di mercato grazie alle nostre bollette. Un concetto abbastanza strano di “libero mercato” per società che rivendicano libertà di impresa (se di impresa si può parlare) e soprattutto che non tollerano poi che enti pubblici possano sostituirsi nella produzione energetica.
 Sulla base di tale parametro si comprende come per 1 MW di potenza installata, per la produttività di zone accettabilmente ventose, deriverebbe l’energia  pari a circa 360-380 mila euro. All’anno!
 Un impianto da 20 MW “produrrebbe” quindi oltre 7 milioni di euro annui.La durata dei certificati verdi, con la finanziaria 2008, è passata a 15 anni, senza contare ulteriori 15 anni con una “ristrutturazione” dell’impianto. Si intuisce l’impatto che sia stato generato nell’ambito di procedimenti autorizzativi e di valutazione, estremamente carenti sul piano delle regole e delle procedure, e che purtroppo ricadono nella sfera delle discrezionalità di tecnici comunali e dirigenti regionali.
 Le garanzie per l’eolico sono state tali che si sono potuti realizzare impianti in aree ben conservate sul piano rurale e quindi prive di rete elettrica sufficiente per poter ingressare l’energia prodotta durante giornate particolarmente ventose. Ma per le società questo non è un problema: in tali occasioni sono lautamente indennizzate come se l’energia dell’impianto fosse ugualmente dispacciata in rete. Inoltre le società eoliche hanno potuto realizzare impianti anche chiedendo anticipi sul pagamento dei certificati verdi a fronte delle stime produttive. Una stridente forma di prestito finanziario garantita dallo Stato, soldi cash in un periodo di ristrettezze in cui l’accesso al credito è invece un miraggio da parte delle banche, deputate per antonomasia a questa funzione, nei confronti di artigiani e piccola impresa. Anche per questo i progetti di tali impianti tendono “utilmente” a sovrastimare la risorsa eolica nei loro elaborati.
 Emblematico è stato il tentativo di ridimensionare il Certificato Verde approdato poi nel decreto Romani del 2011. Dopo la diatriba tra gli schieramenti politici si arriva a definire un piccolo ritocco. Ritocco al valore di riferimento del Certificato Verde? Nemmeno per sogno. Solo al valore di ritiro di quello invenduto! E di ben il 30%, propone la politica. Non oltre il 15% ribatte la lobby. Alla fine sarà del 22%. Del resto, non si mette a rischio un governo per simili quisquilie.
 Dal 2013 si prevede di incentivare questa tecnologia attraverso aste al ribasso ma l’accessibilità al sistema dei certificati verdi sarà garantita fino a tutto il 2015, ed ecco la corsa ad accaparrare diritti acquisiti (mettere in esercizio le centrali il prima possibile) per rivendicare posizioni di rendita.

 L’IMPATTO AMBIENTALE DELL’EOLICO

 Impropriamente, l’impatto dell’eolico viene spesso circoscritto alla mera occupazione fisica delle opere. In realtà esso comporta un assoggettamento territoriale su area vasta.
 Sul piano paesaggistico la modifica territoriale ad opera di tali manufatti industriali, assolutamente fuori scala (i più grandi mai realizzati dall’uomo, 100-150 m di altezza con rotori ampi 70-90 m) e collocati in posizioni ovviamente dominanti, è di tale entità da costituire un profondo detrattore per la percezione della ruralità e della tipicità dei luoghi, condizionando aspettative turistiche nelle sue molteplici forme (agriturismo, naturalistica, archeologica, ecc). Si pensi a emergenze archeologiche, o addirittura a siti UNESCO come i Sassi di Matera, che rischiano l’assedio di piantagioni di pale eoliche, perdendo ogni riferimento contestuale con il territorio circostante per il visitatore.
 L’integrità ambientale e paesaggistica percepita, invece, risulta una delle principali prerogative turistiche ricercate dal visitatore.
 I consessi scientifici concordano nel ritenere insufficiente una tutela delle emergenze storiche e archeologiche dagli impatti delle grandi opere senza una fascia di rispetto che tuteli una visione di contesto e di insieme dell’area interessata, ovviamente commisurata all’entità delle opere che si realizzano.
 Sul piano sociale, l’assenza di perequazione ha indotto il decadimento del valore immobiliare per le proprietà contigue agli impianti a vantaggio di pochi privati. Mentre l’impatto finanziario causa anche pesanti alterazioni nell’equilibrio democratico delle piccole comunità e l’innesco di deprecabili fenomeni di ingiustizia sociale.
 Sul piano urbanistico si registra la compromissione delle aree più pregevoli. Anche la implementazione di altre forme di pianificazione (PIT, PTCP, istituti faunistico-venatori, Piani di assetto urbanistico, rete di tratturi, ecc) rischia di essere vanificata per l’incongruenza con l’avvento di alterazioni territoriali non previste e di cosi ampia portata.
 Sul piano idrogeologico le modifiche territoriali ad opera di questi impianti assumono rilevanza notevole: questi grandi manufatti spesso sono ubicati su soprassuoli (a volte carsici con necessità di scassi e spietramenti) ad orografia complessa, da cui nascono linee di impluvio e formazioni geomorfologiche che convogliano le acque meteoriche nel circolo sotterraneo con conseguenze del tutto imprevedibili.
 La scelta di realizzare centrali eoliche industriali, ma più recentemente anche fotovoltaiche, in un determinato territorio esclude e condiziona molte altre opzioni d’uso di quel territorio, con ingenti danni specie nei confronti di attività che si volessero sviluppare o potenziare, come l’agriturismo, il turismo escursionistico o culturale.
 Quasi tutte le regioni italiane, ma in particolare quelle del Mezzogiorno, sono colpite dalla invasione incontrollata di “piantagioni” di piloni eolici: dall’Abruzzo e Molise alla Sicilia centinaia e centinaia di torri eoliche aggrediscono e assediano Parchi Nazionali e Regionali, Riserve Naturali, SIC, ZPS, IBA, Avvoltoi, Aquila del Bonelli, Grillaio, Cicogna nera, Lanario, Biancone, Aquila reale…. ma anche Chirotteri, Lupi ed Orsi. Pur volendo ingiustamente prescindere da grandiosi valori paesaggistici e storico-archeologici che caratterizzano questa parte del Paese.
 E sulla biodiversità, qual è l’impatto?
 Sul piano naturalistico l’insediamento di tali manufatti industriali in movimento, corredati di infrastrutture (strade, cabine di trasformazione, elettrodotti, ecc), incide sugli ecosistemi naturali (pascoli, macchia) e seminaturali (ecosistemi agrari estensivi, aree “mosaico”, ecc), determinando impatti diretti e indiretti sull’avifauna, sui Chirotteri, sugli invertebrati, sugli habitat ed in generale su tutto l’ecosistema coinvolto. E’ ampiamente dimostrato che gli impianti eolici producono seri effetti negativi sulle biocenosi e sugli uccelli e chirotteri in particolare. Ciò deriva dalle risultanze di molti studi e ricerche effettuati in diversi paesi del mondo.
 Tale problematica è evidenziata in maniera esplicita anche nel documento “ – Draft Recommendation on minimising adverse effects of wind power generation on birds. ” (Consiglio d’Europa, 2003), che riporta:
 Concerned about the potential negative impacts of wind turbines and associated infrastructure on wild birds, as well as on their food sources and habitats, including: 
(a) loss of, or damage to, habitat (including permanent or temporary feeding, resting, and breeding habitats);
(b) disturbance leading to displacement or exclusion, including barriers to movement;
(c) collision mortality of birds in flight;
 Dall’analisi degli studi in merito, emerge che gli effetti negativi sugli Uccelli e sui Chirotteri consistono essenzialmente in due tipologie d’impatto:
–      diretto, dovuto alla collisione degli animali con parti dell’impianto in particolare rotore, che colpisce principalmente, Chirotteri, rapaci e migratori (Orloff e Flannery, 1992; Anderson et al., 1999; Johnson et al., 2000; Thelander e Rugge, 2001);
–      indiretto, dovuti all’aumentato disturbo antropico con conseguente allontanamento e/o scomparsa degli individui, modificazione di habitat (aree di riproduzione e di alimentazione), frammentazione degli habitat e popolazioni, ecc.. (Meek et al., 1993; Winkelman, 1995; Leddy et al., 1999; Johnson et al., 2000; Magrini, 2003).
 Entrambi gli effetti riguardano un ampio spettro di specie, dai piccoli passeriformi ai grandi veleggiatori, ai Chirotteri, agli invertebrati, etc.. In particolare risultano particolarmente minacciati gli uccelli rapaci e i migratori in genere.
 Anche mozioni e risoluzioni nei massimi consessi scientifici testimoniano le preoccupazioni per gli effetti ormai conclamati di queste tecnologie a carico della biodiversità.
 Qualcuno dirà che ci sono ben altri guasti territoriali di cui occuparsi e che una colata di cemento è più dannosa di una distesa fotovoltaica o di una centrale eolica.
 Ma prettamente dal punto di vista della valutazione ambientale l’incisività dell‘eolico o del fotovoltaico non “sostituisce” altre problematiche, al punto tale da consentirne raffronti o paragoni ma anzi si aggiunge ad esse, aggravando il contesto complessivo, premendo proprio su habitat particolari e territori tra quelli maggiormente conservati e quindi su popolazioni faunistiche di estremo interesse perché già minacciate, senza contare altri valori. Termini di paragone, quindi, sono del tutto inapplicabili ai fini scientifici per una corretta valutazione. 

 QUEL BRUTTO AFFARE DEGLI IMPIANTI FINO A 1 MW

 Un ragionamento a parte merita una deleteria deregolamentazione espressamente finalizzata alla realizzazione di impianti fino a 1 MW, provocatoriamente definiti “piccoli” impianti.
 Come se non bastasse, infatti, le macchine eoliche “singole” fino a 1 MW, possono essere oggetto di ulteriore deregolamentazione e assoggettate alla sola DIA (Dichiarazione di Inizio Attività) dalle Regioni, come inizialmente programmato all’art. 17 della legge Comunitaria 2009, escludendosi quindi la cosiddetta Autorizzazione Unica ai sensi del D.Lgs 387/03.
 Un emendamento “al bacio” promosso da parlamentari “doc” ma questa è un’altra storia…. come tante in questo settore.
 La stessa deregolamentazione era prevista anche in una infelice proposta di legge popolare sull’energia a cura di alcune associazioni ambientaliste. Proposta ovviamente in gran parte condivisibile, almeno nel principio, ma che non andava tanto per il sottile quando si tratta di garanzie territoriali, senza quindi proiettare immaginabili conseguenze. In Italia, poi!
 1MW di eolico significa 100 m di altezza, 1MW di Fotovoltaico occupa 2 Ha di terreno agricolo….
 E allora ecco servito il regalo ai privati con le deregolamentazioni introdotte con il D.Lgs 28 del 3 marzo 2011, il Decreto Romani, per gli impianti rinnovabili da 1MW. E’ concesso alle Regioni di escludere questi impianti dal tradizionale regime autorizzativo e di assoggettarli alla sola P.A.S. (Procedura Abilitativa Semplificata), una sorta di Dichiarazione di Inizio Attività, per di più semplificata.  Già ma…. questi impianti sono spuntati come funghi ben prima. In Puglia. Qui, infatti, si inaugurava questa tendenza già nel 2008 con una norma fuorilegge, che elevava, appunto fino a 1 MW, i limiti con cui era possibile realizzare torri eoliche con una semplice dichiarazione di inizio attività. E pensare che in Puglia si stava già ipotecando tutto con centinaia di piantagioni  eoliche “tradizionali”.
 Nuovo caos. A questa terra, già battuta in lungo e in largo da faccendieri e da proposte di centinaia e centinaia di progetti eolici e fotovoltaici, mancava un non so che….  Si chiama colpo di grazia. Certo, in una regione così politically correct appariva quanto meno stonato applicare la ricetta del “meno regole per tutti” e più “liberalizzazione”…. 
 Via la “V.I.A.” e via la richiesta di Autorizzazione Unica. Fai una “Dichiarazione di Inizio Attività” al tuo Comune e tiri su un pilone da 100 m con rotore, linea elettrica e fondamenta in cemento armato profonde 10-20 m. Alla faccia dei tuoi vicini e di qualunque attenzione ambientale o paesaggistica.
 Del resto si tratta di “piccoli interventi”, anche se vuoi fare un lavoro sulla veranda della tua abitazione fai altrettanto: Dichiarazione di Inizio Attività e tempo 30 gg , se il comune non ha nulla da contestare puoi partire con i lavori.
 Per il fotovoltaico, la Puglia, come già accennato, aveva già rimosso completamente la verifica ambientale per impianti fotovoltaici addirittura fino a 15 MW (ben 30 ettari!). Un’assurdità, degna delle peggiori condotte di governo territoriale. Rimaneva l’Autorizzazione Unica ma ben poca cosa senza il passaggio sostanziale, quello del parere ambientale. E così, senza valutazioni, ecco un fiume di progetti fotovoltaici al suolo targati 14,999 MW. Ogni comune è stato destinatario di decine di richieste di D.I.A. eoliche. Una aggressione indicibile e per di più proprio dove le istituzioni avevano mostrato più compiacenza e mancanza di midollo, i Comuni.
 94 richieste di DIA nel solo comune di Candela, che già con gli impianti tradizionali ben meriterebbe un premio “Attila”, se non fosse per l’imbarazzo e l’indecisione che si avrebbe a fronte di tanti altri concorrenti del comprensorio anch’essi molto meritevoli. Si arrabbiarono perfino le società eoliche che avevano procedimenti di grandi impianti sulle stesse aree, contese ora con queste iniziative incontrollabili e molto più rapide. Ma al di là di tutto, non era una deregolamentazione per  impianti… “singoli”?  Tanto ci teneva a precisare, se mai ce ne fosse stato bisogno, una Circolare della Regione Puglia a tutti i Comuni. Bè, è chiaro che se uno tira su due pale da 1MW il totale è 2! Ed è altrettanto chiaro che li si sta prendendo per i fondelli il prossimo. E paradossalmente si possono aggravare anche gli effetti ambientali: due fondamenta, due piloni, due rotori… Insomma procedure ingovernate nel segno dell’ingiustizia.
 La Corte Costituzionale ci ha messo più di un anno e mezzo per affermare che quella norma era platealmente fuorilegge, affermando che una Regione non può sforare limiti e soglie ben più bassi (60 kW) individuati da norme statali sovraordinate per le procedure semplificate. Già… non può… ma lo ha fatto! Per la gioia dei soliti noti.
 Nel Paese dei condoni, diritti ormai acquisiti. A loro i soldi a noi altro territorio adulterato. Prima una pala “singola”. Poi un’altra vicino. E nessuno si accorge di nulla. E allora un’altra ancora. E visto che ci siamo vuoi che non ci si piazzi un bel impianto fotovoltaico da 1 MW? Anzi ne facciamo un paio vicino alle torri. Ma che siano impianti “singoli” mi raccomando. Tutto alla faccia della collettività. Centrali elettriche da 2-3-6 MW senza alcun procedimento degno di questo nome.
 E quanti sono i soli impianti di questo tipo? diversi in vista del castello di Lucera, 3-4 a Bovino, 5-6 a Foggia, 7 a Torremeggiore e cosi via, solo per rimanere in quella Daunia capitale della devastazione paesaggistica. Nessuno lo sa. Nemmeno la Regione.
 Una triste esperienza che avrebbe dovuto insegnare qualcosa. Invece qualcuno ha ben capito che quella era una occasione ulteriore per fare cassa, per speculare estendendola anche ad altre Regioni che volessero diventare un po’ più “ambientalista” delle altre.
 In Basilicata la nomenclatura regionale era alla finestra. La Corte Costituzionale stava già abbattendo la norma pugliese ma, nonostante tutto, pensarono bene di fare la stessa cosa. Non si può, ma se lo fai vuol dire che si può! Semmai dopo, molto dopo, lo Stato ti dirà che non si può. Nel frattempo…. Cosi anche la Basilicata ha iniziato a darsi un gran da fare con queste norme ad personam per tutti coloro che volessero eludere altre norme, quelle ambientali. DIA, la parola magica, ed inizia il colabrodo: una pala li, un fotovoltaico là, uno un po’ più in là, ancora un altro e via così. Anche qui la Corte Costituzionale impugna la norma lucana. Ma la “parlamentare provvidenza” interviene in aiuto. Sembra fatto apposta per la Basilicata, terra bellissima ma appetitosa perché tanto i lucani sono “pochi”, e pochi quelli che votano. Arrivano i decreti nazionali a concedere alle Regioni la facoltà di elevare le soglie di potenza deregolamentabile legittimando ecofurbi & C.
 Come se non bastasse  si assiste a nuovi atteggiamenti elusivi perfino nei confronti di recenti misure di contenimento di carattere governativo sanciti con i predetti decreti.
 L’interdizione dell’accesso agli incentivi per il fotovoltaico oltre 1 MW sui terreni “agricoli” previsto con il DLgs 28.03.2011 (Decreto Romani sulle Rinnovabili), comunque in vigore con un transitorio di un anno (!), viene incredibilmente elusa perseguendo il cambio di destinazione urbanistica da “agricolo” ad “industriale” delle aree interessate, anche per centinaia di ettari (es. comune di Foggia). Nascono inoltre sempre più progetti di cosiddette “serre fotovoltaiche” da decine di ettari l’una, le cui coperture in fotovoltaico lasciano chiaramente intendere la scarsa vocazione colturale e la matrice del tutto speculativa. 

 ANALISI ENERGETICA E STATO DELL’ARTE
 
 Abbiamo visto come la pianificazione energetica dello Stato non esista, alla meglio esistono desiderata, numeri freddi che non derivano da analisi territoriali e da valutazioni di sostenibilità.
 Le pianificazioni regionali che dovrebbero essere “Energetico-Ambientali” (!) in molti casi sono anche peggio e di fatto non esercitano alcun contenimento del fenomeno, oltre ad essere caratterizzate da profili di palese violazione delle norme di riferimento come la mancata applicazione della Valutazione di Incidenza, d’obbligo per verificare gli effetti sulle aree naturali (SIC-ZPS-IBA) in una ottica di rete. Quindi una pesante violazione anche delle direttive comunitarie che sul versante energetico si tende invece a rivendicare.
 Peraltro le già citate linee guida nazionali del settembre 2010 confermano le preesistenti normative in base a cui i limiti di potenza assunti nella pianificazione regionale non possono essere assunti quale elemento per condizionare l’autorizzazione di tali progetti, con evidenti riflessi sul piano giurisprudenziale in caso di contenziosi amministrativi.
 Anzi, in molti casi emergono autentici regali alla lobby.
 A titolo di esempio, il Piano Energetico Regionale della Basilicata, un piano “pre-elettorale” su cui la LIPU ed altre sigle hanno formulato istanze agli organi regionali (inevase, malgrado forti dibattiti interni allo scorso Consiglio Regionale). Tale Piano, pur partendo dai “soli” 10.000 MW nazionali individuati (al 2020) dal Position Paper governativo del 2008, proietta 1500 MW eolici, circa il doppio (!) dei 760 MW di potenza eolica prevista invece dall’ANEV (che pure sarebbe in palese conflitto di interessi) per questa stessa regione, partendo da una più ampia previsione nazionale di ben 16.200 MW (tutti on-shore) al 2020.
 Sull’eolico risultano in esercizio 6000 MW per 5000 torri a fine 2010, già sintomatici di una situazione compromissiva poiché avulsi da qualsivoglia contesto di regole e pianificazione. Eppure si tratta di dati fuorvianti, strumentalmente proposti dalla lobby.
 Con un rapido screening a livello regionale dei pareri già emessi e le autorizzazioni rilasciate, emergono non meno di ulteriori 6000 MW in attesa di realizzazione che quindi hanno già ipotecato ulteriormente il territorio italiano, pur non essendo “visibili” perché non censiti ufficialmente ai collegamenti della rete elettrica nazionale.
 12.000 MW, quindi, che equivalgono alla soglia eolica, pur elevata, comunicata dal Governo Italiano alla UE con il PAN (Piano d’Azione Nazionale Rinnovabili, 30.06.2010)[1] con cui si prevedono 18.000 GWh di energia al 2020.
 Non intervenire immediatamente significa dover poi prendere semplicemente atto di ulteriori migliaia di MW che stanno acquisendo pareri e autorizzazioni, e quindi potenziali diritti “acquisiti”, con ipoteche territoriali non sostenibili ma anche finanziarie da dover onorare irragionevolmente a causa dei ritardi della politica.
 Un’aberrazione che sta completandosi gravemente senza che Stato e Regioni abbiano realmente governato il fenomeno.
 Tale situazione è stata più volte evidenziata in contesti pubblici o istituzionali, anche governativi, da numerose associazioni attraverso un dossier [2], aggiornato al 2010, che esponeva la dinamica reale e i relativi guasti determinati dal cosiddetto eolico “selvaggio” nel Mezzogiorno e sempre più anche nel resto della Nazione. A onor del vero la politica è ancora insensibile a tale denuncia tranne poche, determinate eccezioni come nel caso di esponenti Radicali.
 Per la stabilità di un sistema elettrico, la potenza generatrice di carattere intermittente come quella da FER, e da eolico in particolare, non dovrebbe superare il 20% della potenza complessiva in gioco. Riferendosi alla potenza massima sviluppabile in Italia per circa 56.000, la soglia di sicurezza si aggira in meno di 12.000 MW.
 Ulteriori centinaia o migliaia di MW insediati non solo da fonte rinnovabile intermittente ma con la stessa tecnologia (eolica) oltre ad essere difficilmente gestibili per i limiti accennati, andrebbero a colonizzare aree sempre meno produttive. Infatti quelle con una resa accettabile (comunque grazie a incentivi sovradimensionati) sono già state abbondantemente sfruttate. Si realizzerebbero, quindi, investimenti ancor più onerosi e dalla resa ancor più scarsa rispetto agli obiettivi di riduzione di CO2.
 Non a caso, sul perseguimento di tali obiettivi, l’OCSE nel suo rapporto 2011 sull’Italia “OECD Economic Surveys: Italy 2011”  [3]  evidenzia che l’utilizzo delle rinnovabili elettriche (principale se non unico approccio al decarbonizzazione in Italia) è uno dei modi più costosi per ridurre le emissioni di gas serra.
 Ancora, oggettivamente l’eolico non sviluppa grandi interessi indotti in ambito occupazionale o tecnologico per il nostro Paese ma favorisce di riflesso economie estere mentre il margine di miglioramento del rendimento di questa tecnologia è risibile, tanto da spingere le industrie a ottenere più energia semplicemente ingrandendo il rotore o elevando l’altezza delle pale.
 Infine, il permanere di incentivi cosi lucrosi da cui derivano guadagni esorbitanti per pochi eletti e quindi il sostanziale spreco di denaro alla luce dei risultati, pone l’obbligo di una riflessione sull’immoralità di tale dinamica in un contesto di crisi e grave difficoltà della popolazione e delle imprese che non hanno nemmeno quell’accesso al credito ben più garantito alle srl energetiche da 10.000 euro.
 Sul Fotovoltaico il citato PAN (Piano d’Azione Nazionale) sulle Rinnovabili comunicato alla UE dal Governo Italiano prevedeva 8.000 MW da insediare entro il 2020 da cui ottenere 9.650 GWh di energia. Il “contatore” fotovoltaico del GSE[4] sta per consuntivare il raggiungimento di 11.000 MW (per oltre 5 mld di euro annui!) con un tasso stimato di oltre 1000 MW a trimestre, superando già da qualche mese gli 8000 MW previsti al 2020. Tali previsioni avevano indotto il Governo a intervenire, sebbene con un blocco transitorio, attraverso un nuovo 4° conto energia.
 Ora il DM 5.5.2011 attuativo del 4° conto energia prevede, tra l’altro, una lievitazione della potenza Fotovoltaica installabile a 23.000 MW al 2016, invece degli 8000 MW al 2020 prima previsti. Pur non considerando i miglioramenti tecnologici e di resa nel tempo, questi 23.000 MW (al 2016) produrrebbero 27.700 GWh di energia elettrica.
 Si deduce che, con la sola NUOVA SOGLIA FOTOVOLTAICA prevista già al 2016, si avrebbe la stessa energia preventivata al 2020 nel PAN rinnovabili governativo derivante da tutti i 12.000 MW di potenza eolica e da tutti gli 8.000 MW di potenza fotovoltaica (18.000 GWh + 9.650 GWh). I 6.000 MW eolici in esercizio determinerebbero un surplus energetico rispetto agli obiettivi prefissati nel comparto elettrico.
 A maggior ragione emerge inequivocabilmente l’inutilità di ulteriori centinaia, migliaia di MW eolici rispetto a tali obiettivi con conseguente enorme dispendio di risorse finanziarie più utilmente allocabili per la riduzione dei gas serra e una produttività oggettivamente ingestibile.
 Si aggiunga che il Fotovoltaico, nel settore degli inverter, dell’impiantistica elettrica diffusa, degli installatori e manutentori,  riscuote interesse occupazionale e economico che ricadrebbe sulla economia italiana, anche se sarebbe auspicabile la crescita nazionale in questa tecnologia oggi in mano ai paesi del sol levante.
 Tra l’altro l’orientamento a una diffusione di carattere “condominiale” o parcellizzata per le aziende agricole si presterebbe quale integrazione al reddito invece di favorire solo singole figure imprenditoriali o presunte tali. Tuttavia occorre far notare che un perseguimento troppo rapido di obiettivi con il fotovoltaico rischia di assegnare un ruolo di “cavia” al nostro paese, pagando eccessivamente ciò che altri paesi europei pagheranno molto meno grazie alla progressiva riduzione dei costi. E’ auspicabile quindi che l’incentivazione sia in linea con la graduale riduzione dei costi cosi da ottimizzare le risorse finanziarie.
 Infine si registra una grave distorsione dei valori dei terreni agricoli sull’onda della bolla speculativa determinata proprio dall’accaparramento dei titoli di opzione d’uso per l’insediamento del fotovoltaico al suolo. E’ evidente l’esigenza di spazi su cui insediare il fotovoltaico ma anche la oggettiva assurdità di insediare tale tecnologia sui terreni agricoli, sottraendo preziosi ambiti sia alle produzioni agropastorali ma anche al valore urbanistico, ambientale e paesaggistico dell’Italia. E’ pacifico il consumo di territorio, già estremamente preoccupante in Italia, introdotto da tali insediamenti industriali e inevitabilmente aggravato da moltissimi impianti, autorizzati e in attesa di realizzazione, solo momentaneamente invisibili.
 Da dati ISTAT, l’urbanista Paolo Berdini calcola con precisione che solo dal 1995 al 2006 sono stati occupati dall’uomo e cementificati circa 750.000 ettari di territorio. Quindi parcheggi, capannoni, strade, autostrade, case, palazzi, piazze, poligoni… senza alcun interesse storico o artistico. vi sarebbero ulteriori centinaia di migliaia di ettari compromessi dal dopoguerra in poi, anch’essi privi di significato storico.
 a pur limitandosi ai 750.000 ettari accennati vi sarebbe tutto lo spazio per ricercare 46.000 ettari di superfici su cui insediare i 23.000 MW di fotovoltaico programmati, sebbene ne risultino realizzati già una notevole quota sui terreni agricoli.
 na soluzione banale, semplice, logica, invocata da tutti : allocare il fotovoltaico sulle superfici biologicamente morte di tetti, parcheggi e capannoni. Inverosimilmente si continua a disastrare il territorio per soddisfare solo la speculazione. E del resto se (oggi) i cittadini pagano oltre 5 mld di euro per incentivare il fotovoltaico ci si aspetterebbe che gli stessi cittadini possano avere parola in merito. lla luce di questi dati, scaturisce chiaramente come la matematica non sia un’opinione ma la statistica possa essere abilmente manipolata.
 o stesso quantitativo di energia prodotta dall’eolico italiano può apparire a una grande percentuale se rapportato ai consumi elettrici delle sole famiglie (che non hanno un peso esorbitante nell’assorbimento energetico totale del paese) ma può essere più realisticamente condotto a una bassa percentuale in relazione alle esigenze elettriche del Paese o addirittura infinitesima se rapportato all’intero fabbisogno energetico nazionale.
 La decantata Germania (fonti istituzionali tedesche [5]) al 2009 ha installato la cifra record di 25.730 MW di capacità eolica con ben 21.164 pale che hanno ormai quasi saturato i siti utili per insediare tali impianti. Non meno imponente risulta lo sforzo, più recente, sul fotovoltaico, così come sull’efficienza energetica nel quadro di una politica complessiva.
 Tuttavia il 90% della totalità dei consumi energetici tedeschi (elettrico, trasporti, riscaldamento, ecc) è soddisfatto da fonti non rinnovabili (fossili, in gran parte carbone, e nucleare) mentre il restante 10% dalle rinnovabili, con il contributo eolico del 1,6%. Tanto che la recente chiusura al nucleare prevista in questa nazione ha comportato la necessaria decisione di optare per l’apertura di nuove centrali tradizionali, a gas o carbone.
 Considerando il solo comparto elettrico, l’apporto delle rinnovabili in Germania nel 2009 è stato del 16,4% di cui 6,7 % da eolico e 1,1 da Fotovoltaico (5,2% biomasse, 3,3 idroelettrico).
 In Italia, allo stesso anno, le rinnovabili superavano il 21 % del fabbisogno elettrico, con un apporto garantito in gran parte dall’idroelettrico (15%).
 Per i tedeschi rimane almeno il risvolto economico derivante dall’indotto industriale legato a queste  tecnologie in buona parte di casa loro. 

[1] http://www.governo.it/GovernoInforma/Dossier/energie_rinnovabili/PAN_Energie_rinnovabili.pdf[2] https://www.lipucapitanata.it/wp-content/uploads/2010/06/ISTRUTTORIA-eolico-rev.20.05.10.pdf
[3] http://www.amicidellaterra.it/adt/images/stories/File/downloads/pdf/Energia/Comunicati/RAPPORTO%20OCSE%202011%20-%201.pdf
[4] http://www.gse.it/Pagine/Il-contatore-fotovoltaico.aspx
[5] “Development of renewable energy sources in Germany 2009” edito da federal Ministry for Environment, Nature conservation and Nuclear safety   — “Status der Windenergienutzung in Deutschland – Stand 31.12.2009” edito da DEWI – German Wind Energy Institute (fondato dallo stato della Bassa Sassonia)

 

 IN CONCLUSIONE 

  Emerge chiaro come l’opzione eolica avrebbe dovuto essere assunta con moderazione, sobrietà e consapevolezza dei limiti, ancor più in Italia. E soprattutto con un confronto preventivo, scevro da idee preconcette. Tale opzione è stata invece assunta quasi a panacea di tutti i mali energetici, facendo deragliare l’attenzione sulle ben più importanti e consistenti opzioni di riduzione degli sprechi e di efficienza energetica.
 Ovviamente tutti siamo favorevoli alla produzione di energia elettrica “pulita” e rinnovabile ma… a patti e condizioni. Nel nostro Paese l’eolico si è affermato con tutti i connotati di una vera e propria aggressione indiscriminata al territorio.
 Si possono fare le scelte ritenute più opportune nell’interesse globale del Paese, anche se in questo caso non si può nemmeno parlare di “scelte”. Non è però accettabile che si faccia finta di non vedere la realtà: le centrali eoliche industriali sono del tutto incompatibili con la tutela del territorio, dell’ambiente, della fauna, del paesaggio. Si sarebbe dovuto prendere atto che tali insediamenti, in forza della loro entrinseca invasività e omologazione rappresentano un pesante sacrificio e, in quanto tali, avrebbero necessitato di modalità di inserimento ben più restrittive e non derogabili.
 L’eolico rappresenta un fattore pesante in termini di uso del territorio nei suoi valori più nobili ed è come tale che avrebbe dovuto essere analizzato e valutato. E lo stesso dicasi per il fotovoltaico, dove è ancora più stridente il contrasto tra l’opzione di allocazione sulle superfici urbanizzate e quella disastrosa sui suoli, coltivati o meno che siano. Invece, giorno dopo giorno, qualunque azione è divenuta del tutto tardiva e inutile.
 Le associazioni e i comitati più avveduti al tema ritengono in tutta ovvietà che il contributo delle rinnovabili debba andare nella direzione degli obiettivi di lotta ai gas serra stabiliti con i protocolli internazionali e magari anche oltre, in linea di principio.
 Il predetto obiettivo, del resto, appare del tutto impraticabile ed effimero se non accompagnato da serie politiche di contenimento degli sprechi, di aumento dell’efficienza e della ricerca nel settore (imprescindibile ma trascurata), volti a contenere il complesso di domanda energetica su cui innestare qualsivoglia percentuale di rinnovabile che, altrimenti, finisce per essere una soglia anch’essa in continua crescita vanificando potenziali benefici.
 L’assunzione di obiettivi energetici, come logico che sia, deve scaturire da una valutazione che tenga conto dei limiti territoriali verificati in chiave multidisciplinare, proprio perché le fonti rinnovabili, per loro stessa natura (hanno una bassa densità), tendono ad investire in maniera diffusa e consistente il territorio.
 In caso contrario si potrebbe assumere qualunque percentuale obiettivo secondo i desiderata emotivi o, peggio, di settori “interessati”, ma essa sarebbe del tutto estranea alla sostenibilità ambientale parcellizzando indiscriminatamente centrali energetiche sul territorio, come per molte aree del Paese si sta purtroppo verificando.
 Una questione delicatissima e strategica per la nostra Nazione che avrebbe dovrebbe conciliare vari interessi ricordando che il paesaggio e i valori territoriali non saranno mai delocalizzabili in Cina o altrove, continuando ad offrire una grande opportunità economica da cogliere e preservare.
 Bisogna partire dai limiti produttivi e territoriali delle rinnovabili per migliorarne la resa e la sostenibilità in un quadro complessivo di politiche che ricomprendano anche altre opzioni ad alto valore aggiunto per capacità di contrastare la CO2 ivi compresa la ricerca nel settore. Non è possibile credere ciecamente nelle FER a suon di incentivi spropositati e deregolamentazioni, poi non più arginabili, per la gioia di faccendieri e speculatori. Insomma “rinnovabile”, si, ma innanzitutto “sostenibile”.
 Questo dovrebbe essere l’assunto di una nuova, URGENTE politica per non sprecare risorse preziose, degradare i celebrati valori del territorio italiano e per di più ottenere risultati poco apprezzabili.
 L’attuale sistema premia indiscutibilmente, e nel caso dell’eolico ben oltre ogni ragionevole misura, le rinnovabili elettriche, lasciando al palo le rinnovabili termiche e trascurando altri settori fondamentali come l’efficienza energetica.
 Ammonta a quasi 21.000 GWh l’energia elettrica persa nella rete [1], ben oltre l’apporto energetico che ci si attende da tutto l’eolico che si vorrebbe installare nel Paese. Nel campo dei trasporti, invece, responsabili per ben circa un terzo del nostro fabbisogno energetico, si assiste a un totale immobilismo se non a clamorosi passi indietro come quelli nel campo ferroviario, con la chiusura di intere tratte.

 In estrema sintesi, è ora improcrastinabile :

 –      tagliare gli incentivi al nuovo eolico, compreso gli impianti fino a 1 MW
 –      rimodulare gli incentivi al fotovoltaico tagliandoli definitivamente per gli impianti al suolo, anche quelli fino a 1 MW (ad eccezione di quelli davvero di piccola taglia), e mantenendo interesse finanziario solo per quelli da realizzarsi in ambiti antropizzati e urbanizzati (salvaguardando ovviamente i complessi storici e identitari). Quest’ultimo aspetto sarebbe, evidentemente, interessante anche sul piano popolare, in un momento di congiuntura in cui le famiglie potrebbero ambire a integrazioni al reddito rendendo disponibili i tetti dei propri condomini
 –      aprire un tavolo di confronto istituzionale che favorisca l’analisi critica del fenomeno, e avvii una seria valutazione sulla bonifica delle situazioni più insostenibili allo scopo di valutarne le conseguenze e ogni possibile correttivo, addirittura ipotizzando potenziali delocalizzazioni per gli impianti più deleteri in base a una sorta di “edilizia negoziata” per impianti rinnovabili
 –      orientare le risorse verso le rinnovabili termiche, il risparmio e l’efficienza energetica, i trasporti ma soprattutto in direzione della ricerca, senza della quale un simile disegno rimarrebbe monco e subordinato passivamente alle indicazioni innovative di altri paesi. Senza la ricerca, le nuove rinnovabili continueranno ad arrancare con produttività complessive infinitesime e deludenti. Tutta la questione energetica è un settore in cui l’assenza di ricerca non potrà che comportare conseguenze gravi nel futuro prossimo venturo.

[1] Dati GSE 2011 su bilancio energetico italiano 2010